Il
tema della verità, che ricorre, più o meno formalmente, lungo tutto
l’arco della storia della filosofia, si presenta più che mai con
tratti di impellente drammaticità.
L'uomo,
per la sua stessa inestirpabile dinamica, tiene a che la sua vita
faccia i conti con la verità, e si fondi, se possibile, sulla
verità. Al punto che non è mai accaduto che chi pretendesse di
negarla, non cercasse poi di dimostrare la fondatezza, dunque la
verità,
di tale negazione.
È
noto come il pensiero filosofico occidentale, espressione del resto
di una diffusa mentalità circostante, sia passato da una prevalente
fiducia nella possibilità, per l'uomo, di cogliere il vero (fiducia
dominante in età classica e medioevale) a una progressiva erosione
di tale convinzione, fino a giungere, alle soglie dell’età
moderna, a forme di radicale scetticismo nichilista (come quello di
Nietzsche) o di surroga, più o meno dichiarata, della verità come
adesione a un dato reale con una proposta totalizzante, che pur
disperando di cogliere un vero oggettivo, si è sentita legittimata a
un progetto invadentemente costrittivo, con la onnipervasiva pretesa
di riorganizzare il fenomenico partendo da una ipotesi non
verificabile.
Questa
dialettica ha una logica: nella fase di “ottimismo” gnoseologico
l’umanità occidentale ha unilateralmente accentuato la facilità
di accesso al vero. Ed è (anche) per reazione a tale eccesso, che,
come spesso capita nelle cose umane, si è poi buttata sull’eccesso
opposto.
Dal
punto di vista storico l’eccesso oggettivistico ha significato una
certa durezza, per così dire, nell’affermazione sociale del vero,
una tendenza che portata all’estremo è sfociata nell’intolleranza,
fino alla violenza. C’è qualcosa
di vero nella accusa di violenza, che il pensiero debole ha rivolta a
un certo oggettivismo: non si tratta del livello profondo della
prospettiva metafisica, che risponde a un bisogno autentico
dell’uomo, però è pur sempre un qualcosa che ha fatto i suoi
danni, sul piano storico. E lo si è pagato poi, per i quattro/cinque
secoli in cui il pensiero si è progressivamente allontanato dalla
“sudditanza” all’oggettivo.
In
effetti, per quanto l’umanità postmedioevale abbia vissuto il suo
distacco dal vero oggettivo come una emancipazione, l’abbandono
della verità si configura come una scelta tragica. E le sue
conseguenze stanno sotto gli occhi di tutti: i totalitarismi del XX
secolo non sarebbero stati possibili senza il sovvertimento dell’idea
(sostanzialmente affermata dalla tradizione fino al medioevo) di
verità come adesione all’oggettività. Così come, senza il
rinnegamento della verità, l’umanità occidentale non si
troverebbe ora sull’orlo di un baratro ancora peggiore, quello
della propria autodistruzione anche fisica. Cosa è infatti oggi dell’umanità occidentale, rosa
dal tarlo del dubbio, o meglio testardamente abbarbicata alle sue
incertezze? Un desolante spettacolo di dissoluzione dell’umano: la
disgregazione della famiglia e la denatalità che insidia e rende
fragile l’Occidente, l’istupidimento collettivo mass-mediatico,
che porta a scambiare l’immagine per la realtà e a vivere
inseguendo infantilisticamente idoli consumistici, la solitudine
crescente e la violenza che dilaga anche nelle famiglie e nelle
scuole di mezza Europa, non sono che alcuni sintomi di una crisi, che
si può compendiare come crisi di certezze, come isterica fuga
dall’evidenza, come masochistico rifiuto del nutrimento della
verità: l’umanità di oggi è anoressica del vero.
il ritorno alla verità come urgenza storica
Così,
al termine della sua parabola antirealistica il pensiero occidentale
si trova, come la stessa civiltà di cui è espressione e coscienza
critica, a un drammatico bivio: o permanere nell’autoaccecamento
nichilistico, che lo rende indifeso contro il nuovo terribile nemico
che lo insidia, il fanatismo fondamentalista, o risvegliarsi,
tornando alla realtà.
Ma
il ritorno alla realtà, unica alternativa al suicidio della civiltà
occidentale1,
non può configurarsi come suo tranquillo progetto di autoriscatto:
solo “un dio”, come ebbe a dire acutamente Heidegger2,
la può salvare. È bastata a rovinarsi da sola, ma non basterà a
riscattarsi. La mano misericordiosa del Mistero è già tesa: essa
agisce su due fronti, il pungolo del dramma, che ha nel fanatismo
fondamentalista la sua punta di diamante, che con l’11 settembre ha
cominciato a farsi martellante, e lo squarcio anticipatore del sereno
che ci aspetta, in figure e realtà di testimoni, particolarmente
persuasivi, della vittoria del Bene.
Certo,
l'uomo è libero, può (diabolicamente) perseverare nella menzogna di
una pretesa autosufficienza antropocentrica. Ma dentro una più ampia
testimonianza del Vero, che è anzitutto a livello di vita e di
rapporti interpersonali, anche la filosofia può e deve svolgere un
suo, utile e necessario, compito.
Più
che mai il compito della riflessione filosofica deve essere
finalizzato all’urgenza dell’ora storica presente, nella sua
drammaticità. Il che non significa percorrere praticamente una
declinazione, per così dire, sovrastrutturale nel senso marxiano,
del pensiero, come se la filosofia dovesse ridursi a dizione dotta di
una verità già chiara al comune sentire di un certo tipo umano, a
scaltrita legittimazione teorica di un progetto (pratico-operativo)
già deciso. La filosofia è lavoro e ricerca, ricerca di qualcosa
che, se non è totalmente nuovo e diverso dal (diciamo così)
volgarmente noto, è anche gusto e cura di anelante adesione a
qualcosa che non si finisce di mai di scoprire3.
Oggi
il compito riguardo al problema della verità ci sembra quello di
recuperare ciò che nella posizione classica (antico-medioevale)
rendeva possibile pensare in termini di apertura all’essere,
trattenendo però quanto di vero ha legittimato la reazione
antirealista postmedioevale. Il che è tutt’altro che ovvio, dato
che, a nostro sommesso parere, chi, in tempi recenti, ha difeso la
classica teoria della verità come adesione a un dato, come
adaequatio
intellectus ad rem,
lo ha fatto, almeno fino a un certo punto, non tenendo abbastanza
conto della serietà delle obiezioni moderne contro di essa. La
filosofia viceversa che, a quanto ci risulta, meglio ha cercato di
ripensare il tema della verità facendo i conti fino in fondo con
tali obiezioni, è quella di Blondel, alla quale peraltro si possono
rivolgere alcuni addebiti di incompiutezza e di unilateralità.
In
estrema sintesi, la verità ci è data, e ci è data in un contesto,
che interpella a una risposta totalizzante il nostro umano intero
dinamismo, affettivo-conoscitivo. La verità ci è data, nel senso
che non è nostro possesso
(se
non come certezza
fredda,
inadeguata a soddisfare il desiderio di totalità che ci muove). Ci è
data in un contesto, che è l’intersoggettività, o meglio una
intersoggettività autentica, già intravista da Platone, quando
diceva che la verità è opera di uomini che vivono insieme e
discutono con benevolenza. E non ci è data, in questo contesto, come
qualcosa che si possa distaccatamente contemplare: non ci lascia
indifferenti, ci interpella, perché si presenta come la risposta al
desiderio di pienezza umana. Aver preteso di tagliare la conoscenza
del vero dal desiderio è uno degli errori che hanno gettato un’ombra
di inattendibilità verso il vero, perché un vero che non c’entri
con la felicità perde non solo fascino, ma anche solidità.
1
Si potrebbe obiettare che la questione della sopravvivenza della
civiltà occidentale non ha rilevanza teoretica, e che oltretutto
non è detto che essa sia un bene. Ora è vero che il punto
fondamentale non è salvare una particolare civiltà, intesa come un
prodotto storico accanto ad altri; qui tuttavia intendiamo con
l’espressione civiltà occidentale non quanto in essa vi è di
transeunte o “particolare”
2
«La filosofia non potrà produrre nessuna immediata modificazione
dello stato attuale del mondo. E questo non vale soltanto per la
filosofia, ma anche per tutto ciò che è mera intrapresa umana.
Ormai solo un Dio ci può salvare» (Heidegger, Ormai
solo un Dio ci può salvare,
tr. It. Guanda, Parma 1998, p.136).
3
Questo qualcosa, notiamolo, ha al contempo dei contorni in qualche
modo definiti, il che richiede un lavoro scrupoloso, ma rimanda
anche sempre oltre, il che fonda l’inevitabilità dello stupore,
che non è, come pensava Aristotele, solo all’inizio della
riflessione, ma permane come orizzonte insuperabile.
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