martedì 16 dicembre 2014

riflettendo sulla verità


Il tema della verità, che ricorre, più o meno formalmente, lungo tutto l’arco della storia della filosofia, si presenta più che mai con tratti di impellente drammaticità.
L'uomo, per la sua stessa inestirpabile dinamica, tiene a che la sua vita faccia i conti con la verità, e si fondi, se possibile, sulla verità. Al punto che non è mai accaduto che chi pretendesse di negarla, non cercasse poi di dimostrare la fondatezza, dunque la verità, di tale negazione.
È noto come il pensiero filosofico occidentale, espressione del resto di una diffusa mentalità circostante, sia passato da una prevalente fiducia nella possibilità, per l'uomo, di cogliere il vero (fiducia dominante in età classica e medioevale) a una progressiva erosione di tale convinzione, fino a giungere, alle soglie dell’età moderna, a forme di radicale scetticismo nichilista (come quello di Nietzsche) o di surroga, più o meno dichiarata, della verità come adesione a un dato reale con una proposta totalizzante, che pur disperando di cogliere un vero oggettivo, si è sentita legittimata a un progetto invadentemente costrittivo, con la onnipervasiva pretesa di riorganizzare il fenomenico partendo da una ipotesi non verificabile.
Questa dialettica ha una logica: nella fase di “ottimismo” gnoseologico l’umanità occidentale ha unilateralmente accentuato la facilità di accesso al vero. Ed è (anche) per reazione a tale eccesso, che, come spesso capita nelle cose umane, si è poi buttata sull’eccesso opposto.
Dal punto di vista storico l’eccesso oggettivistico ha significato una certa durezza, per così dire, nell’affermazione sociale del vero, una tendenza che portata all’estremo è sfociata nell’intolleranza, fino alla violenza. C’è qualcosa di vero nella accusa di violenza, che il pensiero debole ha rivolta a un certo oggettivismo: non si tratta del livello profondo della prospettiva metafisica, che risponde a un bisogno autentico dell’uomo, però è pur sempre un qualcosa che ha fatto i suoi danni, sul piano storico. E lo si è pagato poi, per i quattro/cinque secoli in cui il pensiero si è progressivamente allontanato dalla “sudditanza” all’oggettivo.
In effetti, per quanto l’umanità postmedioevale abbia vissuto il suo distacco dal vero oggettivo come una emancipazione, l’abbandono della verità si configura come una scelta tragica. E le sue conseguenze stanno sotto gli occhi di tutti: i totalitarismi del XX secolo non sarebbero stati possibili senza il sovvertimento dell’idea (sostanzialmente affermata dalla tradizione fino al medioevo) di verità come adesione all’oggettività. Così come, senza il rinnegamento della verità, l’umanità occidentale non si troverebbe ora sull’orlo di un baratro ancora peggiore, quello della propria autodistruzione anche fisica. Cosa è infatti oggi dell’umanità occidentale, rosa dal tarlo del dubbio, o meglio testardamente abbarbicata alle sue incertezze? Un desolante spettacolo di dissoluzione dell’umano: la disgregazione della famiglia e la denatalità che insidia e rende fragile l’Occidente, l’istupidimento collettivo mass-mediatico, che porta a scambiare l’immagine per la realtà e a vivere inseguendo infantilisticamente idoli consumistici, la solitudine crescente e la violenza che dilaga anche nelle famiglie e nelle scuole di mezza Europa, non sono che alcuni sintomi di una crisi, che si può compendiare come crisi di certezze, come isterica fuga dall’evidenza, come masochistico rifiuto del nutrimento della verità: l’umanità di oggi è anoressica del vero.

il ritorno alla verità come urgenza storica

Così, al termine della sua parabola antirealistica il pensiero occidentale si trova, come la stessa civiltà di cui è espressione e coscienza critica, a un drammatico bivio: o permanere nell’autoaccecamento nichilistico, che lo rende indifeso contro il nuovo terribile nemico che lo insidia, il fanatismo fondamentalista, o risvegliarsi, tornando alla realtà.

Ma il ritorno alla realtà, unica alternativa al suicidio della civiltà occidentale1, non può configurarsi come suo tranquillo progetto di autoriscatto: solo “un dio”, come ebbe a dire acutamente Heidegger2, la può salvare. È bastata a rovinarsi da sola, ma non basterà a riscattarsi. La mano misericordiosa del Mistero è già tesa: essa agisce su due fronti, il pungolo del dramma, che ha nel fanatismo fondamentalista la sua punta di diamante, che con l’11 settembre ha cominciato a farsi martellante, e lo squarcio anticipatore del sereno che ci aspetta, in figure e realtà di testimoni, particolarmente persuasivi, della vittoria del Bene.
Certo, l'uomo è libero, può (diabolicamente) perseverare nella menzogna di una pretesa autosufficienza antropocentrica. Ma dentro una più ampia testimonianza del Vero, che è anzitutto a livello di vita e di rapporti interpersonali, anche la filosofia può e deve svolgere un suo, utile e necessario, compito.
Più che mai il compito della riflessione filosofica deve essere finalizzato all’urgenza dell’ora storica presente, nella sua drammaticità. Il che non significa percorrere praticamente una declinazione, per così dire, sovrastrutturale nel senso marxiano, del pensiero, come se la filosofia dovesse ridursi a dizione dotta di una verità già chiara al comune sentire di un certo tipo umano, a scaltrita legittimazione teorica di un progetto (pratico-operativo) già deciso. La filosofia è lavoro e ricerca, ricerca di qualcosa che, se non è totalmente nuovo e diverso dal (diciamo così) volgarmente noto, è anche gusto e cura di anelante adesione a qualcosa che non si finisce di mai di scoprire3.
Oggi il compito riguardo al problema della verità ci sembra quello di recuperare ciò che nella posizione classica (antico-medioevale) rendeva possibile pensare in termini di apertura all’essere, trattenendo però quanto di vero ha legittimato la reazione antirealista postmedioevale. Il che è tutt’altro che ovvio, dato che, a nostro sommesso parere, chi, in tempi recenti, ha difeso la classica teoria della verità come adesione a un dato, come adaequatio intellectus ad rem, lo ha fatto, almeno fino a un certo punto, non tenendo abbastanza conto della serietà delle obiezioni moderne contro di essa. La filosofia viceversa che, a quanto ci risulta, meglio ha cercato di ripensare il tema della verità facendo i conti fino in fondo con tali obiezioni, è quella di Blondel, alla quale peraltro si possono rivolgere alcuni addebiti di incompiutezza e di unilateralità.
In estrema sintesi, la verità ci è data, e ci è data in un contesto, che interpella a una risposta totalizzante il nostro umano intero dinamismo, affettivo-conoscitivo. La verità ci è data, nel senso che non è nostro possesso (se non come certezza fredda, inadeguata a soddisfare il desiderio di totalità che ci muove). Ci è data in un contesto, che è l’intersoggettività, o meglio una intersoggettività autentica, già intravista da Platone, quando diceva che la verità è opera di uomini che vivono insieme e discutono con benevolenza. E non ci è data, in questo contesto, come qualcosa che si possa distaccatamente contemplare: non ci lascia indifferenti, ci interpella, perché si presenta come la risposta al desiderio di pienezza umana. Aver preteso di tagliare la conoscenza del vero dal desiderio è uno degli errori che hanno gettato un’ombra di inattendibilità verso il vero, perché un vero che non c’entri con la felicità perde non solo fascino, ma anche solidità.
1 Si potrebbe obiettare che la questione della sopravvivenza della civiltà occidentale non ha rilevanza teoretica, e che oltretutto non è detto che essa sia un bene. Ora è vero che il punto fondamentale non è salvare una particolare civiltà, intesa come un prodotto storico accanto ad altri; qui tuttavia intendiamo con l’espressione civiltà occidentale non quanto in essa vi è di transeunte o “particolare”
2 «La filosofia non potrà produrre nessuna immediata modificazione dello stato attuale del mondo. E questo non vale soltanto per la filosofia, ma anche per tutto ciò che è mera intrapresa umana. Ormai solo un Dio ci può salvare» (Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, tr. It. Guanda, Parma 1998, p.136).
3 Questo qualcosa, notiamolo, ha al contempo dei contorni in qualche modo definiti, il che richiede un lavoro scrupoloso, ma rimanda anche sempre oltre, il che fonda l’inevitabilità dello stupore, che non è, come pensava Aristotele, solo all’inizio della riflessione, ma permane come orizzonte insuperabile.

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