Quello che le scimmie non dicono
intervista a Ian Tattersall
martedì 28 agosto 2012
Ian Tattersall è
un paleoantropologo, un paleontologo cioè specializzato nello studio
dei fossili umani, quei reperti che documentano il cammino
dell’evoluzione dell’uomo; è uno dei più noti e ha diretto molte
campagne sul campo, in Africa e Asia, ed è curatore emerito del Museo di
Storia Naturale di New York. Incontrarlo significa partecipare
un po’ del fascino delle sue ricerche e condividere la sfida più
stimolante per lui: quella di cercare di capire come pensavano e cosa
pensavano i nostri progenitori, come leggevano lo spettacolo della
natura, come si lasciavano interrogare dalla realtà. Ovviamente non è
nei fossili che si possono trovare risposte dirette, ma inizia da lì un
percorso di indizi che può trovare nella documentazione archeologica
delle prove più consistenti.
Quando si pensa all’evoluzione è
consueta l’immagine di un crescendo lineare che gradatamente ha portato
fino a noi. In realtà la scienza si è allontanata da tale immagine. Ma
se non è un percorso lineare, si tratta di qualcosa di caotico, di
puramente casuale?
L’idea di una evoluzione graduale era la
posizione degli scienziati cha hanno elaborato la cosiddetta teoria
sintetica nella prima metà del secolo scorso e che riducevano i fenomeni
evolutivi alla competizione e selezione naturale. Verso gli anni ‘70
però è diventato sempre più chiaro che questo modello non era adeguato.
Soprattutto la documentazione fossile mostrava l’evidenza di un cammino
con interruzioni e periodi di assenza di cambiamento. Ciò significava
che la selezione naturale non è l’unico fattore dei cambiamenti
evolutivi e che altri agenti sono coinvolti, comprese le interazioni con
l’ambiente: i mutamenti ambientali sono in effetti un grande driver
dell’evoluzione. Naturalmente interviene anche il caso. Bisogna però
considerare che quando parliamo dei processi evolutivi spesso siamo
portati a semplificare le cose: in realtà noi non guardiamo al singolo
processo ma a una storia fatta dall’accumularsi di molti e diversi
elementi.
Alcuni parlano del manifestarsi del caso cieco.
Caso è una parola delicata. Certo, il
caso è un elemento presente in tutta la nostra esperienza umana e non è
incomprensibile che nel corso dell’evoluzione biologica intervengano
cambiamenti casuali, insorgano differenze e variazioni, dovute anche al
fatto che cambia l’ambiente, che si verificano fenomeni improvvisi,
disastri naturali, a volte catastrofici. La mia idea della selezione
naturale è che sia molto importante ma che agisca più nelle fasi di
stabilizzazione delle popolazioni che nel produrre le novità e i
mutamenti. Per spiegare questi bisogna introdurre altri fattori.
Veniamo all’emergere dell’uomo:
c’erano segni che stava per accadere qualcosa del genere o si è trattato
di un fatto totalmente imprevisto?
Ci sono biologi, come Simon Conway Morris, che pensano a un cammino di convergenze destinato a portare inevitabilmente all’Homo Sapiens.
Non condivido questa visione. Ci sono stati troppi eventi, troppe
situazioni speciali, troppi fattori in gioco. Non penso quindi che si
possa individuare un senso di inevitabilità in tutti questi fenomeni e
processi.
Il cammino dell’evoluzione umana
è solo una questione di competizione, di lotta per la sopravvivenza o è
anche una storia di cooperazione?
Dipende dalla scala alla quale si
considera il problema. Se si pensa alle altre specie, allora quello
della competizione è il principale fattore che determina il formarsi dei
successivi scenari evolutivi che oggi possiamo rileggere. D’altra
parte, se consideriamo nello specifico la specie Homo Sapiens,
conta molto di più l’aspetto della cooperazione; molto più di quanto non
si possa riscontrare tra altre specie relativamente vicine alla nostra,
come le scimmie o gli altri primati. Questa nostra inusuale propensione
al comportamento cooperativo è un fatto che fa molto riflettere. Del
resto l’Homo Sapiens ha una tendenza naturale alla socialità,
anche qui in modo molto più spiccato delle altre specie: siamo più
inclini a rapportarci con gli altri, a preoccuparci per gli altri, e
viviamo in una complessa rete di relazioni e interazioni. Ed è un tratto
che emerge molto presto nella storia evolutiva umana.
Lei sostiene che la dimensione simbolica è il tratto distintivo dell’Homo Sapiens: come è emersa?
Non lo riconosciamo esaminando i
fossili, non potremmo. Abbiamo però una documentazione archeologica
importante. Riconosciamo la dimensione simbolica nelle pietre, nel come
erano lavorate e nei segni che sono rimasti su esse; ma anche nei resti
dei siti abitativi, nel modo di organizzarli e strutturarli. E poi ci
sono dei veri e propri oggetti simbolici, dei manufatti non
giustificabili diversamente. Questi oggetti ci suggeriscono come
pensavano quegli esseri umani: noi uomini ricostruiamo il mondo nella
nostra testa e produciamo oggetti frutto di questa rielaborazione; non
ci limitiamo, come altri animali, a reagire agli stimoli che arrivano
dal mondo. Pensando alle grandi scimmie, capita spesso di sentire dire
che “hanno fatto cose che finora si pensava facessero solo gli uomini”:
tuttavia non si può affermare che arrivino ad avere una capacità
simbolica. È questo l’abisso cognitivo tra noi e le scimmie.
E quando si è manifestata?
Agli inizi del cammino dell’Homo Sapiens, circa 200 mila anni, non c’era ancora; i primi Sapiens non
si comportavano come noi oggi ma più come gli uomini di Neandertal.
Possiamo pensare che in quel periodo si sia prodotta qualche piccola
modifica a livello cerebrale che ci ha dato un potenziale nuovo; un
potenziale che è rimasto inoperoso finché si è scatenato lo stimolo
principale, il linguaggio. A mio avviso l’evento determinante è stata
l’invenzione spontanea del linguaggio, probabilmente in una piccola
popolazione in qualche luogo dell’Africa: il linguaggio è una facoltà
che prevede creazione e manipolazione dei simboli. Solo verso i 100 mila
anni fa si rivela un comportamento radicalmente nuovo dell’Homo Sapiens,
caratterizzato dalla capacità di innovazione e di astrazione ed
emblematicamente concretizzato nella produzione di oggetti simbolici;
una tendenza realizzata in pieno 40 mila anni fa con la grande arte
rupestre.
Quindi si è trattato di un evento preciso, non determinato da qualcosa di antecedente?
Il passaggio dall’Homo "non simbolico" all’Homo "simbolico" era impensabile, ma è accaduto; ed è accaduto in un unico evento, non gradualmente.
E cosa è cambiato da allora?
Non ci sono stati ulteriori particolari
mutamenti biologici ma l’evoluzione culturale ha avuto uno sviluppo
rapido e pervasivo, con una intensità non riscontrabile in alcun modo
nella documentazione archeologica precedente. Prima della dimensione
simbolica, le cose non cambiavano frequentemente, non c’era quella
varietà e differenziazione che riscontriamo poi. Questo ci dice molto di
come l’evoluzione umana è proseguita e come proseguirà in futuro: non
tanto a livello biologico ma a livello culturale. E ci dice che è
possibile vivere la vita in modo sempre più significativo.
(Michele Orioli)