lunedì 4 gennaio 2021

Giussani modernista?

Secondo gli ultraconservatori si deve credere perché si deve (perché la fede è oggettivamente vera, piaccia o non piaccia) e non perché la fede sia una esperienza che ci realizza. Infatti secondo loro, se si parla di autorealizzazione, si cade nel soggettivismo, da cui poi non si uscirebbe più, con le sue conseguenze relativistiche. Relativista per loro era don Giussani che lasciava troppo le persone perseguire una loro ricerca di autenticità/autorealizzazione, al punto che, ad esempio, regalò al fratello marxista di Franco Nembrini dei libri di Marx, a dispetto della loro oggettiva pericolosità, solo perché così ne assecondava il “cammino” e non lo voleva forzare (ideologicamente) ad aderire a una verità oggettiva, non soggettivamente assimilata e (per lui) convincente; o ancora, egli non esortava suoi studenti non cristiani a convertirsi al cristianesimo, come invece gli ultraconservatori avrebbero trovato giusto e necessario, ma li esortava ad “andare a fondo” della tradizione in cui erano nati, l’ebraismo se ebrei, l’islam se maomettani e in generale ad andare a fondo e ad essere leali con l’esperienza che vivevano.

Il fatto è che la fede per Giussani è riconoscimento di un Presenza, la presenza del Mistero fatto carne (soprattutto) dentro la comunione ecclesiale, concezione molto simile a quella di de Lubac (si veda il suo commento alla Dei Verbum) e del Concilio Vaticano II (appunto nella Dei Verbum), un riconoscimento che coinvolge la totalità della persona e non la sola ragione; mentre per gli ultraconservatori essa è, neotomisticamente e preconciliarmente, adesione non a una Persona, cosa che implicherebbe il coinvolgimento della propria integrale soggettività, affettività inclusa, ma a degli articoli di fede analiticamente intesi e propter auctoritatem Dei revelantis, cosa che facilmente significa una adesione astrattamente intellettuale, che taglia fuori l’affettività come irrilevante e perciò accentua il carattere moralistico del credere, visto come un dovere, in senso non poi molto diverso da quello di Kant. Credo, insomma, perché la mia ragione mi dice che devo, del tutto a prescindere dall’affettività e dallo sperimentarmi o meno realizzato.



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