lunedì 20 dicembre 2021

potere e presenza (note su un duello a distanza)

Vittadini ha messo (in una SdC a Cremona, novembre 2021) in alternativa presenza e potere. Formigoni gli ha, a stretto giro di posta, risposto che il potere è necessario perché senza potere un cristiano non può incidere sulla società come è giusto che faccia (e ha portato l’esempio del suo potere in Lombardia, che gli ha permesso si realizzare il buono-scuola, la possibilità di scelta tra sanità pubblica e privata, e altre cose, che a un cristiano dovrebbero stare a cuore), e che il potere non è alternativo alla presenza.

Che dire? A me pare che Vittadini non intendesse come alternativo alla presenza un potere inteso come servizio, capace di dialogo e di intesa ed esercitato sotto la propria personale responsabilità, ma un potere esercitato in un’ottica particolaristica, di insanabile, schmittiano, contrasto amico/nemico, e che pretenda di essere esercitato come l’unico modo con cui un cristiano può impegnarsi in politica, o, peggio ancora, un potere esercitato come mezzo per affermare la fede (non “le conseguenze della fede” sul profano, ma “la fede”). 

Il punto decisivo è questo: a che cosa serve un buon potere? Se serve a rendere il mondo più giusto e umano, allora va bene. Ma se serve ad affermare la fede, se serve come puntello per la fede, se viene cercato come conditio sine qua non di quella fede senza cui non potrei vivere, allora non va più tanto bene.

Perché la fede non ha bisogno del potere per esserci. E infatti Gesù non ha rivendicato per Sé alcun potere politico, anzi ha rifuggito coloro che lo volevano fare Re, e ha chiarito nel modo più netto che il Suo regno non è di questo mondo. Il potere, un buon potere, un potere da non disprezzare ma da ricercare, serve sì, ma non a far esistere la fede: serve a vivere nel miglior modo possibile in questo mondo. Ed è chiaro che se uno, aiutato dall’esperienza di fede comunionalmente vissuta, vuole impegnarsi a costruire un mondo più giusto e più umano, non deve certo demonizzare tale desiderio né reprimerlo. Per un cristiano però l’impegno politico non può essere la condizione senza cui la fede non c’è, non può essere la causa della fede, ma semmai ne è una conseguenza. Una conseguenza da esercitare consapevoli dei propri limiti e senza anatemi o pretese («se non state con me, andrete all’Inferno»). Sapendo che i propri sono “tentativi ironici”. E perciò aperti al dialogo e al contributo di tutti (i propri fratelli nella fede anzitutto, ma poi tutti gli esseri umani disposti a dialogare). Senza perciò demonizzare nessuno, senza considerare nessuno come nemico, ma al massimo come avversario.

Per cui Formigoni, nella misura in cui vuol dire che un  cristiano non può disinteressarsi del mondo e della politica, e che deve impegnarsi per un mondo il più possibile giusto, ha ragione.

Dove però sbaglierebbe, sarebbe se pretendesse, per un cristiano impegnato in politica, un unanime e granitico appoggio di tutta la comunità cristiana in quanto tale, visto che uno si impegna in politica, come ha sempre detto anche don Giussani sotto la sua personale responsabilità. E questo è legato al fatto che l’impegno politico non è necessario alla fede per esistere, ma solo per esprimere una passione per il mondo. 

Ci possono sì, poi, essere situazioni in cui i cristiani sono chiamati all’unità contro una grave minaccia alla libertas Ecclesiae.  Questo poteva avere un senso ad esempio prima della caduta del Muro di Berlino: allora ci poteva stare ad esempio anche la scomunica (comminata dal S.Uffizio) a chi votava comunista e la richiesta di una unità compatta dei cattolici in politica; oggi non è più in pericolo la libertas Ecclesiae, per cui si può essere un po’ più tolleranti e non minacciare le fiamme dell’Inferno per chi non condividere la modalità con cui è condotta una certa battaglia politica.

Questo non significa che il cristianesimo sia indifferente a qualsiasi possibili scelta politica (non è ad esempio compatibile né con un collettivismo statalista, né con un ultraliberismo sordo al tema della giustizia sociale), ma la fede, e l’autorità della Chiesa non può pretendere di “stringere” troppo sul dettaglio, come se tutti i credenti dovessero agire necessariamente all’unisono, in situazioni in cui non sia messa in pericolo la libertas Ecclesiae.

La fede infatti dà sì delle indicazioni sull’ambito profano (culturale e politico), ma sono indicazioni di massima. Sul dettaglio è legittimo invece un pluralismo di posizioni, purché non rassegnate a una insuperabile incomunicabilità e men che meno caratterizzate da ringhiose contrapposizioni anatematizzanti: uno deve confrontarsi. Deve confrontarsi, senza pretendere l’unità (con gli altri cristiani), ma desiderandola; deve desiderare che ci si avvicini asintoticamente alla massima intesa possibile, del resto non solo con i propri fratelli di fede, ma con tutti gli esseri umani aperti al dialogo e al confronto. 



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