giovedì 17 marzo 2022

Invasione dell’Ucraina e nuovi equilibri

Prima dell’attacco russo del 24 febbraio l’atteggiamento degli occidentali verso le grandi potenze ex(?)-comuniste, Russia e Cina era diviso: la sinistra (cosiddetta mondialista) guardava con simpatia alla Cina e la destra (sovranista-populista) guardava con simpatia alla Russia di Putin, non per nulla amico e mentore di Trump.

Ora le carte sono completamente sparigliate: Cina e Russia si sono enormemente avvicinate, legate da una comune volontà espansionistica, con la Cina che si vuole annettere Taiwan, e la Russia che si vuole annettere (o almeno schiavizzare) l’Ucraina e probabilmente anche qualcos’altro.

A questo punto l’Occidente non può più dividersi: conservatori e progressisti insieme devono aver chiaro che la lezione di questa guerra è che è intollerabilmente pericoloso che ci siano stati antidemocratici, dittatoriali, mai davvero usciti dal totalitarismo, a possedere armi atomiche. Deve essere chiaro che i totalitarismi vanno rovesciati. Non dico in modo necessariamente brusco, militarmente, ma facendo leva su tutte le carte che il mondo libero ha in mano: anzitutto l’economia e poi l’informazione alla popolazione di tali stati. Si è infatti rivelata una tragica illusione che bastasse intrattenere relazioni commerciali “normali” per “normalizzare” politicamente, poco a poco, tali regimi liberticidi. Senza prendere sul serio le parole dei dittatori. Deve essere chiaro che con sistemi dittatoriali ci può essere solo temporanea tregua, ma non pace definitiva. L’obiettivo deve essere quello di liberare il popolo russo e il popolo cinese dalle dittature che li opprimono. Prima lo si fa, meglio è. Dove “prima possibile”, ripeto, non vuol dire “subito”, né significa agire in modo scomposto e nevrotico. Con nervi saldi, unendo forza e astuzia, deve essere chiaro che con chi mente sistematicamente e nega la libertà ai suoi cittadini non è realistico sperare in relazioni di sincera pacifica convivenza.



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domenica 27 febbraio 2022

americani come i russi?

Chi assolve l’invasione russa dell’Ucraina del febbraio 2022 porta come una delle principali motivazioni, il fatto che quello che i russi fanno adesso, gli americani lo hanno fatto tante altre volte.

Vediamo in una tabella gli interventi militari all’estero degli uni e degli altri:

i russi occupano, d’accordo con Hitler, la Polonia orientale e le repubbliche baltiche gli americani, a prezzo del loro sangue, liberano l’Europa dal nazifascismo
i russi invadono l’Ungheria nel 1956, costringendola restare comunista gli americani intervengono in Sud Vietnam, chiamati dal legittimo governo di quel paese, per evitarne la caduta in mani comuniste
i russi invadono la Cecoslovacchia nel 1968, costringendola a restare comunista gli americani intervengono per liberare il Kuwait invaso dall’Iraq di Saddam Hussein []fu un errore, d’accordo, ma di tipo ben diverso da quelli della colonna sinistra] (prima guerra del Golfo)
i russi invadono l’Afghanistan nel 1979, per costringerlo a restare comunista gli americani intervengono, questa volta sì con una vera azione di terra, per porre fine al regime non democratico di Saddam Hussein, che dava fastidio a Israele [questo fu l’errore più grave] (seconda guerra del golfo)
i russi costringono la Polonia a autoinvadersi per costringerla a restare comunista, nel 1981 gli americani intervengono in Kossovo, bombardando le posizioni serbe [l’intento era buono: salvare la popolazione albanofona del Kossovo da pulizia etnica; il distacco del Kossovo dalla Serbia mi appare invece un errore]
i russi invadono prima la Crimea (2014) e ora (2022) l’Ucraina intera se un errore lo fanno gli Stati Uniti, è quello di non essere intervenuti

Mi pare che si possa dire gli americani, nei loro interventi militari fuori casa, hanno 1) un merito enorme, aver sconfitto Hitler, senza averlo prima aiutato, come invece aveva fatto la Russia, col patto Molotov-Ribbentropp; e 2) diversi errori, ma senza paragone meno gravi di quella della Russia.



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martedì 15 febbraio 2022

Dopo Carron, un nuovo don Giussani?

Ho letto su Facebook di una persona, del Movimento, che dopo aver sentito parlare mons. Santoro alla Scuola di comunità online, ha detto di aver “sentito di nuovo la terra sotto i piedi” (cito a memoria, ma con buona approssimazione).

Ora io invece dico che dobbiamo abituarci all’idea che non è detto che la Provvidenza ci manderà, per guidarci, un nuovo don Giussani. Può benissimo darsi che non ce lo mandi. Così come non ha mandato a guidare i francescani, dopo la morte del Fondatore, un nuovo S.Francesco, o a guidare i benedettini un nuovo S.Benedetto, o a guidare i gesuiti un nuovo S.Ignazio.

Dire che è possibile che la Provvidenza non mandi un nuovo don Giussani, significa che dobbiamo prendere atto che autorità e autorevolezza sono due cose distinte, e che non possiamo pretendere che chi ha l’autorità (per così dire istituzionale) di guidare il Movimento abbia la stessa autorevolezza di don Giussani. Lo stesso Carron, che pure per me è stato autorevole, non aveva la stessa carismaticità di don Giussani. Ed è possibile che nemmeno chi verrà dopo di lui ce l’abbia, anzi magari ne avrà ancora di meno.

Di conseguenza bisogna prendere sul serio il concetto di responsabilizzazione a cui il decreto del Dicastero ci ha richiamato: il carisma è affidato alla responsabilità di tutti, di tutte le persone del Movimento. L’autorevolezza non è più garantita nelle mani di una sola, suprema, monarchica, infallibilmente e indefettibilmente autorevole, autorità, ma è in qualche modo diffusa, partecipata, collegiale, fraterna, “sinfonica” (direbbe von Balthasar).

Questo non significa confondere i ruoli, né significa che adesso diventiamo “cristiani adulti”, che si autogestiscono: un “cristiano adulto” è uno che non dipende (da niente di concreto, di visibile). Noi invece dobbiamo voler dipendere. Il carisma c’è, è qualcosa di concreto, e va seguito. Il carisma è un dato, che non possiamo manipolare a piacimento. I testi del Giuss sono lì, la comunità è lì, e, certo, anche l’autorità è lì, «se Dio vorrà». E’ lì, ma non potrà pretendere di vedersi riconosciuta una autorevolezza solo per il fatto di essere autorità; un tale riconoscimento se lo dovrà guadagnare sul campo; e dovrà cercare il più possibile di esercitare la sua funzione nel modo più umile e collegiale possibile. Il che non vuole dire dare ragione a tutti, ma dare ragioni a tutti. Ragioni di quello che si dice e si fa. Senza pretendersi infallibilmente ispirato dallo Spirito Santo in ogni dettaglio di quanto pensa, dice e fa.

Se c’è un appunto metodologico che mi sento di fare alla conduzione Carron, al quale peraltro va tutta la mia più sincera e più affettuosa stima, ma che su 100 cose, di cui almeno 90 giuste, qualcuna ne può ben aver sbagliato – mi perdoni Iddio se sbaglio – è di aver tirato dritto sulla sua strada, senza argomentare quali fossero le sue ragioni a chi lo criticava. Sopportava senza batter ciglio di essere trafitto come un San Sebastiano, senza mai rispondere pubblicamente a chi, pubblicamente, lo criticava, se non con fugaci e stringati accenni. Ma, ahinoi, era forse questo il modo migliore di reagire? Ne dubito. Perché significava, oggettivamente, al di là delle intenzioni, che non dubito siano state ottime, non riconoscere all’altro, che ti avanza delle obiezioni, la dignità di essere umano raziocinante, e perciò capace di dialogo e meritevole in quanto tale di essere preso sul serio. Se anche tali obiezioni fossero state arzigogoli dialettici astratti, causati da una mancanza di esperienza, sarebbe comunque stato giusto rispondervi nel merito. Come infatti faceva don Giussani coi suoi studenti del Berchet che lo criticavano (ed è da lì, dalle loro obiezioni, a cui lui rispondeva nel merito, non limitandosi a dire «dovete fare esperienza», che sono nati i volumi del PerCorso). Rimando al riguardo a quanto ho scritto sul benaltrismo.



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benaltrismo

Ossia “i (veri) problemi sono altri”. Il benaltrismo è una modalità di comunicazione ingannevole e fuorviante, perché suppone quanto non è vero, ossia: che tra A e B ci sia alternativa, per cui se si fa A non si può fare B, e viceversa. A quel punto sarebbe giusto che se, e quanto più, A è più importante di B, occorre fare A e accantonare B. Ma c’è benaltrismo quando in realtà nulla vieta di fare sia A sia B.

Perché allora uno dice “i problemi sono altri”? Perché non ha il coraggio di dire che non è d’accordo con B. Cioè in realtà non pensa che B sia poco importante e comunque da postporre ad A, ma pensa che B sia proprio sbagliato, e non vada proprio fatto, «né domani né mai». Solo che non ha il coraggio e l’onestà intellettuale di dirlo, oppure gli costerebbe troppa fatica argomentare perché B è sbagliato. In ogni caso il benaltrismo è una forma di ipocrisia e di falsità.

Anche in CL si dice talora “il problema è un altro”. Ora questo non è necessariamente espressione di benaltrismo. Non lo è, se davvero il B che viene proposto, pur avendo magari in sé qualcosa di vero e di giusto, è scorporato da un contesto di fede viva, è arzigogolo pretestuoso e distraente (cioè se si tratta di un B che distrae da A, dall’esperienza di fede). Ma lo può essere se B non è alternativo ad A.

Ma anche nel caso in cui, così com’è, lo sia, vi sono tre possibilità:

  1. la peggiore, sarebbe assecondare chi propone un B distraente da A,
  2. quella intermedia è dire: senti, io sono interessato ad A, se vuoi sarebbe bene anche per te puntare su A
  3. la migliore sarebbe recuperare il buono e il vero di B dentro A, portandolo a un livello superiore, dove niente va perso.

Un esempio: quando insegnavo, in ambienti del Movimento, penso agli anni ’90, davanti a richieste di miglioramenti stipendiali si diceva appunto “il problema è un altro” (cioè la componente educativa, piuttosto che quella economica). Ora a me pare che lì ci fosse del benaltrismo, perché la libertà di educazione non è alternativa a una equità di trattamento economico.



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lunedì 14 febbraio 2022

la crisi ucraina

Che la Russia abbia ragione di sentirsi militarmente minacciata, così da poter parlare sensatamente di problemi di sicurezza, è inverosimile: la NATO non la attaccherebbe mai. Se non altro perché la Russia dispone di armi atomiche. Il fatto che la NATO si sia espansa ad Est, in paesi che facevano parte del patto di Varsavia, non è la premessa ad una invasione americana della Russia, ma è frutto di una libera scelta dei governi democraticamente eletti di quei paesi, che, evidentemente, non si sentono sicuri di un vicino potente come la Russia, che in passato ha invaso Ungheria, Cecoslovacchia, Afganistan, e ha costretto la Polonia ad auto-invadersi. È vero che la Russia non è più comunista, ma bisogna vedere se il lupo abbia cambiato anche il vizio, oltre che il pelo. In ogni caso Putin è un ex-KGB, che ha dimostrato il più totale disprezzo per le regole costituzionali che la stessa Russia post-comunista si era data, facendosi rieleggere più e più volte, in barba a tali regole; inoltre la oligarchia di ultra-ricchi, a cui egli è funzionale, è in gran parte formata da ex-dirigenti comunisti riciclatisi (come lo è Putin). In generale la Russia è ben lontana dall’essere un paese democratico: il fatto che il principale oppositore dell’autocrate sia stato prima avvelenato, e poi arbitrariamente incarcerato, dice di un cinismo e di una prepotenza sfacciati. Del resto anche l’alleato bielorusso di Putin, che fa dirottare un aereo occidentale per sbattere in galera un suo oppositore, dice di una spregiudicatezza che nulla ha a che vedere con la democrazia e il rispetto dei diritti. Quindi i paesi confinanti hanno ottimi motivi per temere un Paese del genere. E chiedere perciò di essere protetti dalla NATO. Senza che ciò debba essere letto come una minacciosa volontà aggressivamente espansionistica dell’Occidente.

Tuttavia delle colpe l’Occidente le ha. Penso soprattutto all’intervento con cui la NATO strappò alla Serbia il Kossovo. Ora, se la Russia strappasse all’Ucraina il Donbass, abitato da russofoni che vogliono stare con Mosca piuttosto che una Kiev che si legasse all’Occidente, non farebbe un errore più grande di quello degli USA e degli altri paesi occidentali, che hanno strappato il Kossovo alla Serbia. La Serbia era un paese sovrano, né più né meno di quanto non lo sia oggi l’Ucraina, e la minoranza russofona del Donbass non merita di essere tutelata di meno della minoranza albanese del Kossovo (minoranza, dico, finché il Kossovo restava unito alla Serbia). Se la Russia attaccherà l’Ucraina senza autorizzazione dell’ONU farà qualcosa che gli americani hanno già fatto con la Serbia, stato sovrano che venne da loro bombardato senza alcuna autorizzazione delle Nazioni Unite. Con questo non sto dicendo che la Russia farebbe bene a invadere il Donbass, sto solo dicendo che ha cominciato l’Occidente con questa linea di unilateralismo.

Per fermare l’attacco militare all’Ucraina, i russi chiedono assicurazioni che l’Ucraina non entrerà a far parte della NATO. Ora da un lato questo è ingiusto: perché se il governo democraticamente eletto di un paese sovrano chiede liberamente di entrare a far parte di un organismo internazionale, è una ingiustizia impedirglielo. Tuttavia, d’altro lato, si tratta di qualcosa che è già successo, con la Finlandia e l’Austria, dopo la 2a guerra mondiale: tali stati non potevano entrare nella NATO. Ora, piuttosto che una guerra, sarebbe meglio, a mio avviso, accettare (almeno temporaneamente) questa richiesta della Russia, che per quanto attualmente retta da un regime semidittatoriale, non è paragonabile alla Germania di fine anni ’30. Per cui tale concessione non sarebbe una “nuova Monaco”, ma un cedimento tattico, a cui dovrebbe seguire uno sforzo per riallacciare rapporti più distesi con Mosca, ma soprattutto con il popolo russo, aiutando la Russia a evolversi in senso democratico e a liberarsi sempre di più dell’incantesimo che ne incatena gran parte della popolazione al suo pifferaio magico. In questo senso l’Occidente deve capire che nei paesi dell’est-Europa l’appartenenza etnico-nazionale ha, per tradizione, un peso ben maggiore di quanto abbia negli individualistici paesi occidentali: il dialogo, necessario qui, come altrove e sempre, richiede il massimo sforzo di capire il punto di vista dell’altro.



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lunedì 20 dicembre 2021

potere e presenza (note su un duello a distanza)

Vittadini ha messo (in una SdC a Cremona, novembre 2021) in alternativa presenza e potere. Formigoni gli ha, a stretto giro di posta, risposto che il potere è necessario perché senza potere un cristiano non può incidere sulla società come è giusto che faccia (e ha portato l’esempio del suo potere in Lombardia, che gli ha permesso si realizzare il buono-scuola, la possibilità di scelta tra sanità pubblica e privata, e altre cose, che a un cristiano dovrebbero stare a cuore), e che il potere non è alternativo alla presenza.

Che dire? A me pare che Vittadini non intendesse come alternativo alla presenza un potere inteso come servizio, capace di dialogo e di intesa ed esercitato sotto la propria personale responsabilità, ma un potere esercitato in un’ottica particolaristica, di insanabile, schmittiano, contrasto amico/nemico, e che pretenda di essere esercitato come l’unico modo con cui un cristiano può impegnarsi in politica, o, peggio ancora, un potere esercitato come mezzo per affermare la fede (non “le conseguenze della fede” sul profano, ma “la fede”). 

Il punto decisivo è questo: a che cosa serve un buon potere? Se serve a rendere il mondo più giusto e umano, allora va bene. Ma se serve ad affermare la fede, se serve come puntello per la fede, se viene cercato come conditio sine qua non di quella fede senza cui non potrei vivere, allora non va più tanto bene.

Perché la fede non ha bisogno del potere per esserci. E infatti Gesù non ha rivendicato per Sé alcun potere politico, anzi ha rifuggito coloro che lo volevano fare Re, e ha chiarito nel modo più netto che il Suo regno non è di questo mondo. Il potere, un buon potere, un potere da non disprezzare ma da ricercare, serve sì, ma non a far esistere la fede: serve a vivere nel miglior modo possibile in questo mondo. Ed è chiaro che se uno, aiutato dall’esperienza di fede comunionalmente vissuta, vuole impegnarsi a costruire un mondo più giusto e più umano, non deve certo demonizzare tale desiderio né reprimerlo. Per un cristiano però l’impegno politico non può essere la condizione senza cui la fede non c’è, non può essere la causa della fede, ma semmai ne è una conseguenza. Una conseguenza da esercitare consapevoli dei propri limiti e senza anatemi o pretese («se non state con me, andrete all’Inferno»). Sapendo che i propri sono “tentativi ironici”. E perciò aperti al dialogo e al contributo di tutti (i propri fratelli nella fede anzitutto, ma poi tutti gli esseri umani disposti a dialogare). Senza perciò demonizzare nessuno, senza considerare nessuno come nemico, ma al massimo come avversario.

Per cui Formigoni, nella misura in cui vuol dire che un  cristiano non può disinteressarsi del mondo e della politica, e che deve impegnarsi per un mondo il più possibile giusto, ha ragione.

Dove però sbaglierebbe, sarebbe se pretendesse, per un cristiano impegnato in politica, un unanime e granitico appoggio di tutta la comunità cristiana in quanto tale, visto che uno si impegna in politica, come ha sempre detto anche don Giussani sotto la sua personale responsabilità. E questo è legato al fatto che l’impegno politico non è necessario alla fede per esistere, ma solo per esprimere una passione per il mondo. 

Ci possono sì, poi, essere situazioni in cui i cristiani sono chiamati all’unità contro una grave minaccia alla libertas Ecclesiae.  Questo poteva avere un senso ad esempio prima della caduta del Muro di Berlino: allora ci poteva stare ad esempio anche la scomunica (comminata dal S.Uffizio) a chi votava comunista e la richiesta di una unità compatta dei cattolici in politica; oggi non è più in pericolo la libertas Ecclesiae, per cui si può essere un po’ più tolleranti e non minacciare le fiamme dell’Inferno per chi non condividere la modalità con cui è condotta una certa battaglia politica.

Questo non significa che il cristianesimo sia indifferente a qualsiasi possibili scelta politica (non è ad esempio compatibile né con un collettivismo statalista, né con un ultraliberismo sordo al tema della giustizia sociale), ma la fede, e l’autorità della Chiesa non può pretendere di “stringere” troppo sul dettaglio, come se tutti i credenti dovessero agire necessariamente all’unisono, in situazioni in cui non sia messa in pericolo la libertas Ecclesiae.

La fede infatti dà sì delle indicazioni sull’ambito profano (culturale e politico), ma sono indicazioni di massima. Sul dettaglio è legittimo invece un pluralismo di posizioni, purché non rassegnate a una insuperabile incomunicabilità e men che meno caratterizzate da ringhiose contrapposizioni anatematizzanti: uno deve confrontarsi. Deve confrontarsi, senza pretendere l’unità (con gli altri cristiani), ma desiderandola; deve desiderare che ci si avvicini asintoticamente alla massima intesa possibile, del resto non solo con i propri fratelli di fede, ma con tutti gli esseri umani aperti al dialogo e al confronto. 



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venerdì 19 novembre 2021

La Chiesa è perseguitata dal relativismo?

Fino alla caduta del muro di Berlino la Chiesa era perseguitata nei paesi comunisti. Lo è in qualche modo ancora oggi in Cina, benché la Cina non si concepisca più, come dice Huntington, come attiva propagatrice del comunismo nel mondo (a differenza dell’URSS); quindi la minacciosità della sua (peraltro discussa) “persecutività” non appare nemmeno lontanamente paragonabile a quella dell’Unione sovietica. Tanto più che non esiste alcun partito politico, in Europa, che, legato a Pechino, si prefigga di importare il modello cinese (a differenza dei partiti comunisti occidentali di quando c’era l’URSS) e men che meno che abbia qualche sia pur remota probabilità di prendere il potere.

Tuttavia qualcuno sostiene che la Chiesa sia oggetto di persecuzione, o stia per esserlo, a motivo del diffondersi in Occidente di una mentalità etica relativistica, che portando avanti battaglie come il codiddetto “gender” o l’eutanasia, si appresterebbe a dare il colpo di grazia alla fede. 

Ora questo modo di pensare mi pare sbagliato, e per diverse ragioni.

1. Anzitutto chi vuole il riconoscimento giuridico di certi valori o “diritti” non ha una visione totalizzante della realtà che sia anche solo lontanamente paragonabile a quello che era il marxismo-leninismo. Il suo progetto è enormemente più circoscritto e “modesto”: si tratta di gente che vuole vivere in un certo modo, senza esserne impedita. Vivere ad esempio potendo uscire in strada con un partner dello stesso sesso senza venir picchiata. O vivere potendo decidere di terminare la propria vita quando la giudicherà insopportabilmente dolorosa. Una volta che tali “diritti” siano riconosciuti non mi risulta che esista la volontà di sradicare una comunità cristiana che non pretendesse di tornare a toglierglieli per via legislativa. Per essere ancora più chiaro: il comunismo voleva togliere di mezzo la fede “a prescindere”, facessero o no i cristiani qualcosa di politicamente sgradito; il relativismo occidentale attuale non vuole altro che una legittimazione giuridica di certe prassi etiche, che riguardano la sfera privata (e che possono confliggere con l’antropologia cristiana). Il comunismo aveva una visione 1a) teorica 1b) totalizzante che voleva riplasmare tutto (pubblico e privato, per cui 1c) tutti 1d) dovevano sempre fare X; il relativismo attuale ha solo degli obbiettivi 2a) pratici e 2b) circoscritti, dato che si limita a chiedere che nella sfera privata, 2c) chi vuole 2d) possa, se e quando lo vuole, fare X. Ed è per questo che mentre il marxismo non poteva non voler sradicare del tutto il cristianesimo, così da imporre a tutti la sua visione, al relativismo basta che non gli sia imposto, sul piano legislativo, qualcosa che (si suppone, a torto o a ragione) leda certi aspetti della (loro) sfera privata.

Certo, ci sono dei contenuti della X relativistica, come l’aborto, che non riguardano solo il soggetto agente, ma un altro soggetto. Quindi è sacrosanto che un cristiano possa impegnarsi a contrastare l’aborto anche sul piano legislativo: ma non tirando in ballo la fede, bensì argomentando con la ragione; il che è più che sufficiente e non ha controindicazioni.

2. In secondo luogo alla Chiesa non è necessaria una adesione ai suoi precetti etici ottenuta per via legislativa, anzi non è nemmeno utile: fare il bene infatti perché spinti a ciò dalle leggi statali non avrebbe senso. Occorre invece, dal punto di vista della stessa fede, che fare il bene sia conseguenza operativa di una gratitudine per un Evento imprevedibile. L’etica si fonda sull’ontologia, non l’ontologia sull’etica. E in ogni caso, ripeto, l’etica non può essere imposta dalle leggi statali, che si limitano a impedire che si faccia un danno ad altri. Le leggi non possono obbligare a fare il bene (anche perché del bene, in una società multiculturale esistono diverse, legalmente legittime, concezioni), si limitano a impedire che si faccia del male ad altri.

Ma, si dice, se passano certe leggi, la Chiesa non sarà più libera di dire che certe cose sono sbagliate. Chiaramente, se fosse così, sarebbe un male. Ma per la Chiesa l’essenziale è A) l’annuncio di un Evento, non B) il mettere in riga dal punto di vista morale tutta la gente. Quanto più si darà importanza a B e meno ad A, tanto più si renderà il mondo “laico” desideroso di mettere il bavaglio alla Chiesa. Dovrebbe essere ovvio. Se poi si pensa a leggi che fanno del danno ad altri, come l’aborto, come dicevo, è giusto impegnarvicisi contro, ma non in quanto cristiani, bensì usando la ragione e gli argomenti razionali, mettendosi alla pari di qualsiasi altro cittadino, senza pretendere di imporre alcunché.



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